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lunedì 5 dicembre 2016

Il genocidio dei Rohingya e il silenzio della Nobel

C'è voluto l'intervento di un primo ministro, il premier malaysiano  Najib Razak, per pronunciarla
quella parola: genocidio. E per usare quell'altra locuzione, pulizia etnica, che avevamo ascoltato per la crisi nei Balcani e poi in quella dei Grandi Laghi. Questa volta l'oggetto è un popolo di un milione di persone a cui il Paese in cui vive nega persino la cittadinanza e il riconoscimento come comunità. Sono i Rohyngya  del Myanmar, un Paese a maggioranza buddista governato dal connubio tra la casta militare e un governo civile uscito vittorioso dalle elezioni e rappresentato dalla Nobel Aung San Suu Kyi. Ma i Rohyngia sono musulmani e poveri. Per i birmani, sono solo immigrati bangladesi.

 Razak è musulmano come loro e sa anche come vive la minoranza musulmana in Thailandia, quindi non si stupisce. Ma per esser franchi non è solo un problema umanitario e politico (ha chiesto l'intervento del Tribunale penale internazionale). E' che i profughi rohingya, quando scappano vanno verso Sud e tra i Paesi sulla rotta c'è proprio la Malaysia anche perché è un Paese in gran parte musulmano. Subito dopo c'è l'Indonesia. C'è già stata una crisi dei profughi oltre un anno fa e la Malaysia, una piccola mecca asiatica dove il livello di vita è alto, teme una nuova invasione. Anche perché Bangkok non scherza: non prende profughi e li rispedisce in mare, semmai li "accompagna" a Sud. Attualmente, i Rohyngia sono i siriani dall'Asia (o gli iracheni, o gli afgani se preferite). Ma a differenza di Bashar al Assad, un criminale patentato, il loro primo ministro (in realtà facente funzioni e ministro degli Esteri) è Aung San Suu Kyi. Che sulla pulizia etnica chiude occhi, bocca e orecchie per salvare il difficile equilibrio in cui si trova impantanato il suo governo.

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