Visualizzazioni ultimo mese

Cerca nel blog

Translate

mercoledì 17 gennaio 2018

Rohingya, il rimpatrio impossibile


Tra meno di una settimana, come stabilito in novembre tra le autorità del Bangladesh e quelle del Myanmar, dovrebbe iniziare il rimpatrio delle centinaia di migliaia di persone della minoranza musulmana birmana dei rohingya rifugiatesi oltre frontiera nell’agosto scorso. I termini del rimpatrio fissano infatti al 23 gennaio la data di inizio di un controesodo che dovrebbe concludersi nel giro di due anni. Ma quando a fine novembre 2017, Dacca e Naypyidaw hanno siglato l’accordo per il rientro dei rohingya espulsi questa estate dai militari birmani, il bilancio delle vittime scampate all’ultimo pogrom anti musulmano era arrivato a poco più di 600mila unità. In questi giorni, quando sono stati resi pubblici i paletti dell’accordo, l’ultimo bilancio ha aggiornato la cifra a 673mila. In buona sostanza, mentre si negoziava il ritorno, altri 70mila rohingya fuggivano dal Paese delle mille pagode e della Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. In che condizioni dunque può avvenire questo controesodo che i riflettori della cronaca, per quanto scarsi, e le pressioni internazionali, per quanto scarne, hanno alla fine imposto al regime birmano dove i generali dettano ancora legge?



Le autorità birmane intanto stanno mettendo i propri paletti nazionali: il primo riguarda l’accoglienza per chi rientra (solo famiglie a quanto pare) che inizierà da un campo allestito nel Rakhine (lo Stato birmano da cui i rohingya sono scappati) in grado di ospitarne 30mila Il dubbio è se questi campi transitori possano o meno diventare delle riserve indiane dove parcheggiare indefinitamente gente che non ha documenti di identità e proprietà e per la quale sarà assai difficile stabilire dove e come viveva, sempre che il suo villaggio non sia stato dato alle fiamme.
Non è purtroppo un’illazione, dal momento che gli sfollati del pogrom del 2012, scatenato allora dalla fobia xenofoba e antimusulmana dei gruppi buddisti radicali, entrarono in campi da cui non è più uscito nessuno: circa 100mila persone. Adesso, che si tratta di oltre 600mila, che fine faranno? E che fine farà chi, uscito dal Bangladesh, entrerà nelle maglie strette della dogana birmana che dovrà vagliare caso per caso? Amnesty International ha spiegato, dopo un’inchiesta durata due anni, che i rohingya in Myanmar vivono intrappolati «in un sistema vizioso di discriminazione istituzionalizzata sponsorizzata dallo Stato e che equivale all'apartheid». Vero non solo chi abita nei campi, ma anche per chi semplicemente abita nelle aree rohingya, ormai largamente spopolate.

In assenza di un'autorità di controllo internazionale e super partes il futuro del rimpatrio è dunque oscurato da nubi pesantissime e da interrogativi cui è difficile rispondere. Quei campi di transito si trasformeranno in riserve permanenti? E i rohingya se la sentiranno di tornare da un Paese che li ha cacciati a colpi di mitraglia? Intanto le autorità birmane hanno mandato a Dacca una lista di 1300 supposti aderenti all’Arakan Rohingya Salvation Army, il gruppo guerrigliero accusato di terrorismo da Naypyidaw, chiedendone al Bangladesh l’estradizione.

Nessun commento: