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mercoledì 1 maggio 2013

PRIMO MAGGIO A DACCA

Il primo maggio del Bangladesh oggi si chiama Rana Plaza, l'edifico crollato una settimana fa e in cui sono rimaste sepolte centinaia di vittime e le ambizioni dell'industria tessile del Paese, il maggior polo di sviluppo e profitto ma anche la causa di altrettanti drammi. Un dramma che ha coinvolto anche molte aziende occidentali, che in Bangladesh delocalizzano le produzioni.



Qualcuno ha fatto spallucce. Altri, come la canadese Loblaw e la britannica Primark hanno ammesso di essere clienti di alcune delle fabbriche ospitate nel palazzo e hanno proposto una compensazione alle famiglie delle vittime. Altri hanno plaudito a un'iniziativa che convertirà la spesa per l'acquisto di una T-shirt in un contributo ai lavoratori del Bangladesh. Altri ancora invece, come l'italiana Benetton, una decisione non l'hanno ancora presa. La Benetton, incastrata dal ritrovamento tra le macerie di etichette United Colors e di un ordine commerciale, ha ammesso di aver avuto a che fare con la New Wave, una delle fabbriche ospitate nel palazzone crollato. Ma ha aggiunto che “nessuna delle aziende coinvolte nel tragico incidente di Dacca è ad oggi un nostro fornitore”. Una “ricerca attenta” e, aggiungiamo noi, tardiva, ha verificato che “quantomeno un ordine in passato c'è stato, forse due: si tratta di una fornitura occasionale, one shot, e probabilmente in subfornitura come capita nel settore del tessile. Ma a fine marzo – ha detto un portavoce dell'azienda trevigiana all'Ansa - lo avevamo già eliminato dai nostri fornitori regolari per gli audit non convincenti che ci erano arrivati”. Audit che, a detta di Benetton, non comprendono “informazioni sulle strutture degli edifici''.

Fornitura occasionale dunque - almeno che non emergano nuovi elementi – pur se stupisce che in questa occasione Benetton rivendichi di essere “in prima fila sia per gli audit approfonditi con cui verifica condizioni ambientali e sociali delle società presso cui si rifornisce sia per la sensibilità sull'ecocompatibile”. Come che sia, poiché l'azienda sostiene di non “volersi lavare le mani” sulla vicenda si può sperare in un gesto significativo che renda quell'essere in prima fila un'evidenza e non uno slogan.

Intanto,
mossa dalla rabbia della protesta popolare e dalle pressioni che soprattutto nei Paesi anglosassoni hanno messo sotto inchiesta il settore, la magistratura bangladeshi si dà da fare. L'alta corte di Dacca ha ordinato l'immediata confisca di tutti i beni mobili e immobili di Sohel Rana, il proprietario di cinque fabbriche di indumenti che avevano i loro laboratori nel Rana Plaza, sempre di sua proprietà. Dopo il crollo, annunciato da una grossa crepa che era stata ignorata, Rana si era dato alla macchia ma il suo arresto, nei pressi della frontiera indiana, è arrivato con una velocità rara in un ambiente dove l'impunità è di solito di casa: molti imprenditori che commettono reati contro la sicurezza non vengono perseguiti e se vengono arrestati, dopo poco escono di prigione. Questa volta però la giustizia locale non vuole lasciar nulla al caso e Sohel Rana rischia di pagare per tutti, persino con la morte in un Paese che prevede la pena capitale.

L'alta corte ha anche ordinato all'ispettorato generale del registro di emettere una circolare che vieti rapidi passaggi di mano delle società di Rana. Ma non se la passano bene nemmeno gli altri quattro proprietari di fabbriche tessili (tra cui Samad Adnan e Mahbubur Rahman Tapash, capo e direttore della New Wave, la ditta che aveva Benetton come cliente), anch'essi agli arresti.
Intanto, anticipazione del primo maggio, le proteste hanno invaso le piazze della capitale anche ieri dando fiato a una rabbia che si alimenta di voci sulla possibilità che alcuni cadaveri siano stati nascosti dalle squadre dei soccorritori e che tiene alta una tensione che non farà dimenticare la festa del lavoro. In questo Paese, oggi, listata a lutto.

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